Oh, fine pratico della mia poesia!
Per esso non so vincere l’ingenuità
che mi toglie prestigio, per esso la mia
lingua si crepa nell’ansietà
che io devo soffocare parlando.
Cerco, nel mio cuore, solo ciò che ha!
A questo mi son ridotto: quando
scrivo poesia è per difendermi e lottare,
compromettendomi, rinunciando
a ogni antica mia dignità: appare,
così, indifeso quel mio cuore elegiaco
di cui ho vergogna, e stanca e vitale
riflette la mia lingua una fantasia
di figlio che non sarà mai padre…
Pian piano intanto ho perso la mia compagnia
di poeti dalle facce nude, aride,
di divine capre, con le fronti dure
dei padri padani, nelle cui magre
file contano soltanto le pure
relazioni di passione e pensiero.
Trascinato dalle mie oscure
vicende. Ah, ricominciare da zero!
solo come un cadavere nella sua fossa!
E così, ecco questa mattina in cui non spero
che nella luce…Sì, nella luce che disossa
con la sua felicità primaverile
le giornate di questa mia Canossa.
Eccomi nel chiarore di un vecchio aprile
a confessarmi, inginocchiato,
fino in fondo, fino a morire.
Ci pensi questa luce a darmi fiato,
a reggere il filo con la sua biondezza
fragrante, su un mondo,come la morte, rinato.
Poi…ah, nel sole è la mia sola lietezza…
quei corpi, coi calzoni dell’estate,
un pò lisi nel grembo per la distratta carezza
di rozze mani impolverate…Le sudate
comitive di maschi adolescenti,
sui margini di prati, sotto facciate
di case, nei crepuscoli cocenti…
L’orgasmo della città festiva,
la pace delle campagne rifiorenti…
E loro, con le loro facce vivide
o nere d’ombra, come di cuccioli lupi,
in pigre scorribande, in lascive
ingenuità…Quelle nuche! Quei cupi
sguardi! Quel bisogno di sorridere,
ora per i loro discorsi, un poco stupidi,
d’innocenti, ora come per sfida
al resto del mondo che li accoglie:
FIGLI. Ah, quale Dio li guida
così certi, qui lungo le strade più spoglie,
ai Castelli, alle Spiagge, alle Porte
della città, nelle previste, antiche voglie
di chi sa già che giungerà alla morte
dopo essere veramente vissuto:
che la vita che ha in sorte
è quella giusta,e nulla avrà perduto.
Umili, certo. E quello che sarà
il loro mondo vile, poi d’aver compiuto
se stessi (il loro destino è la viltà),
è ancora un albeggiare quasi
su sconosciuti alberi, in cui ha
la natura soltanto gemme, in una stasi
di purezza suprema, di coraggio.
Oh, certo, essi sono invasi
ormai dal male che ricevono in retaggio
dai padri – mia coetanea, nera razza-
Ma in che cosa sperano? che raggio
di luce li colpisce, in quella faccia
dove l’attaccatura dei capelli
alla fronte, i ciuffi, le onde sono grazia
più che corporea?…Dolcemente ribelli,
e, insieme, contenti del futuro dei padri:
ecco che cosa li fa così belli!
Anche i torvi, anche i tristi, anche i ladri
hanno negli occhi la dolcezza
di chi sa, di chi ha capito: squadre
ordinate di fiori nel caos dell’esistenza.
In realtà, io, sono il ragazzo, loro
gli adulti. Io, che per l’eccesso della mia presenza,
non ho mai varcato il confine tra l’amore
per la vita e la vita…
Io, cupo d’amore, e, intorno, il coro
dei lieti, cui la realtà è amica.
Sono migliaia. Non posso amarne uno.
Ognuno ha la sua nuova, la sua antica
bellezza, ch’è di tutti: bruno
o biondo, lieve o pesante, è il mondo
che io amo in lui – ed accomuno,
in lui – visione d’amore infecondo
e purissimo – le generazioni,
il corpo, il sesso. Affondo
ogni volta – nelle dolci espansioni,
nei fiati di ginepro – nella storia,
che è sempre viva, in ogni
giorno, ogni millennio. Il mio amore
è solo per la donna: infante e madre.
Solo per essa,impegno tutto il cuore.
Per loro, i miei coetanei, i figli, in squadre
meravigliose sparsi per pianure
e colli, per vicoli e piazzali, arde
in me solo la carne. Eppure, a volte,
mi sembra che nulla abbia la stupenda
purezza di questo sentimento. Meglio la morte
che rinunciarvi! Io devo difendere
questa enormità di disperata tenerezza
che, pari al mondo, ho avuto nascendo.
Forse nessuno è vissuto a tanta altezza
di desiderio – ansia funeraria
che mi riempie come il mare la sua brezza.
I pendii, i colli, l’erba millenaria,
le frane di fiori o di rifiuti, i rami secchi
o lucidi di guazza, l’aria
delle stagioni con i loro muretti
vecchi o recenti al sole…tutto questo
nasconde me e (ridete!) gli amici giovinetti
in cui nessun atto è disonesto
perchè è senza tragedia il loro desiderio:
perchè il loro sesso è integro, fresco.
Nono potrei, altrimenti. Solo se leggero,
dentro la norma, sano, il figlio
può farmi nascere il pensiero
scuro e abbacinante: così solo gli somiglio
nella verifica infinita di un segreto
ch’è nel suo grembo impuro come un giglio.
E mille volte questo atto è da ripetere:
perchè, non ripeterlo, significa provare
la morte come un dolore frenetico,
che non ha pari nel mondo vitale…
Non lo nascondo, se nulla ho mai nascosto:
l’amore, non represso, che mi invade,
l’amore di mia madre, non dà posto
a ipocrisia e viltà! Nè ho ragione
per essere diverso, non conosco
il vostro Dio, io sono ateo: prigione
solo del mio amore, per il resto libero,
in ogni mio giudizio, ogn mia passione.
Io sono un uomo libero! Candido cibo
della libertà è il pianto: ebbene piangerò.
E’ il prezzo del mio “libito far licito”,
certo: ma l’amore vale tutto ciò che ho.
Sesso, morte, passione politica,
sono i semplici oggetti cui io do
il mio cuore elegiaco…La mia vita
non possiede altro. Potrei domani,
nudo come un monaco, lasciare la partita
mondana, cedere agli infami
la vittoria…Non avrebbe perso
nulla, certamente, la mia anima!
Chè la fatalità di essere esistenza
inalienabile, razza, universo,
basta a chiunque: anche se al mondo è senza
fraternità, perchè diverso.
Perciò le risa e le allusioni
dei poveri razzisti, scorrono attraverso
la sua realtà come dei suoni
non reali, di morti. Nel mio essere,
queste realtà hanno sesso e passioni…
E, certo, non ne ho gioia. Ossesse
ne sono le sue predestinate forme:
“le repressioni fanno di me un Esse Esse,
o un mafioso…” e io – è enorme,
lo so – lo sono: giovane figlio candido
santo barbaro angelo, le orme
calcai, per qualche tempo, che mandano
alla Rivolta Reazionaria
(fu in epoche infime del grande
itinerario di una vita in Italia),
carnefice biondo, o killer colore
del fango, come un seguace…del sanguinario
borghese Hitler, o del forte figliolo
di poveri Giuliano… – conformismo
che mi salvava, come un volo
cieco. Tutto ciò non fu che crisma,
ombra che disparve dalla mia vita.
Rimase l’inclinazione allo scisma:
un naturale bisogno di farmi male alla ferita
sempre aperta. Un configurare
ogni rapporto col mondo che a sè m’invita,
al rapporto del mio figliale
sadismo, masochismo: per cui non sono nato,
e sono qui solo come un anumale
senza nome: da nulla consacrato,
non appartenente a nessuno,
libero d’una libertà che mi ha massacrato.
Onde non io, ma colui che somunico,
trae la disperata conclusione,
di essere il reietto di un raduno
di altri: tutti gli uomini, senza distinzione,
tutti i normali, di cui è questa vita.
E cerco alleanze che non hanno altra ragione
d’essere,come rivalsa, o contropartita,
che diversità, mitezza e impotente violenza:
gli Ebrei…I Negri…ogni umanità bandita…
E questa fu la via per cui da un uomo senza
umanità, da inconscio succube, o spia,
o torbido cacciatore di benevolenza,
ebbi la tentazione di santità. Fu la poesia.
La strega buona che caccia le streghe
per terrore, conobbe la democrazia…
Non fu un dono del cielo! Le atroci
leghe coi compagni virili inconsci ricattatori,
le risa con cui il mostro diede
dimostrazione di calma salute e sicuri amori,
pronto a torturare e uccidere altri mostri
per di non essere riconosciuto – tutto fu fuori
d’improvviso da me (e vi si riconoscano
ora coloro che mi odiano, fatto pubblico,
i poveri fascisti), una sera, tra i boschi
cedui, chissà, tra macchie indissolubili
di viole sulla prode, tra vigneti o lumi
serali di villaggi, sotto vergini nubi,
(nell’Emilia del mio destino, nel Friuli dei miei numi)…
A vincere fu il terrore. Voglio dire che fu
più grande il terrore della realtà e della solitudine,
di quello della società. Amara gioventù,
preda di quella immedicabile coscienza
di non esistere, che ancora è la mia schiavitù…
Chè io arriverò alla fine senza
aver fatto, nella mia vita
la prova essenziale, l’esperienza
che accomuna gli uomini, e dà loro
un’idea così dolcemente definita
di fraternità almeno negli atti dell’amore!
Come un cieco: a cui sarà sfuggita,
nella morte, una cosa che coincide
con la vita stessa – luce seguita
senza speranza, e che a tutti sorride,
invece, come la cosa più semplice del mondo –
una cosa che non potrà mai condividere.
Morirò senza aver conosciuto il profondo
senso d’esser uomo, nato a una sola
vita, cui nulla, nell’eterno,corrisponde.
Un cieco, un mostro, in vita mia, non consola
mai niente davvero: ma al punto irrimediabile
e vergognoso, nel terrore dell’ora
in cui tutto è stato – egli sarà una cavia
neanche più un uomo! assurdo
– da non poterlo sopportare, e gridare di rabbia,
e mugolare,come una bestia, il cui urlo
è l’urlo di un innocente che protesta
contro un’ingiustizia di cui è trastullo –
è questo ordine prenatale, questa
predestinazione, in cui egli non c’entra,
che nulla ha a che fare con la sua onesta
antica anima…Dentro i ventri
delle madri, nascono figli ciechi
– pieni di desiderio di luce – sbilenchi
– pieni d’istinti lieti:
e attraversano la vita nel buio e la vergogna.
Ci si può rassegnare – e i feti
viventi, povere erinni, possono in ogni
ora della loro vita, tacere o fingere.
Gli altri dicono sempre che non bisogna
essergli di peso. Ed essi obbediscono. Si tinge
così tutta la loro vita di un colore diverso.
E il mondo – il mondo innocente! – li respinge.
Ma io parlo…del mondo – e dovrei,
invece – parlare dell’Italia e anzi,
di una Italia, di quella di cui dei,
con me, lettore dei miei versi, figlio:
fisica storia in cui ti circostanzi.
L’ho chiamato “innocente”, il mondo, io,
io, in quanto cieco, figlio martoriato.
Ma se guardo intorno questi avanzi
d’una storia che da ssecoli ha dato
soltanto servi…questa Apparizione
in cui la realtà non ha altro indizio
che la sua brutale ripetizione…
che scena…espressionistica! Penso a un giudizio
subito senza senso…le toghe…le tristi autorità del Sud…
dietro i visi dei giudici – in cui il vizio
è un vizio di dolore, che denuda
ambienti miserandi – non si leggeva che impotenza
a uscire da un’oscura realtà di parentele, da una cruda
moralità, da una provinciale inesperienza…
Quelle fronti da Teatro dell’Arte,
quei poveri occhi di obbedienti onagri
intestarditi, quelle orecchie basse,
quelle parole che per mascherare
il vuoto si gonfiavano a recitare una parte
di paterna minaccia, di indignazione floreale!
Ah, io non so odiare: e so quindi che non posso
descriverli con la ferocia necessaria
alla poesia. Dirò solo con pietà di quella faccia
di calabrese, con le forme del bambino
e del teschio, che parlava dialettale
con gli umili, scolastico coi grandi.
Che ascoltava attento, umano,
e intanto, negli ineffati e nefandi
fori interiori, covava il suo piano
di timido che il timore fa spietato.
Ai lati, altre due faccie ben riconoscibili,
faccie che per strada, in un bar affollato,
sono la faccie deboli, poco sane,
di precoci invecchiati, di malati
di fegato: di borghesi il cui pane
certo non sa di sale, non ignobili, no,
non prive affatto di sembianze umane
nel pungente, nero degli occhi, nel pallore
delle fronti martoriate dalla prima
feroce anzianità…Un quarto inviato del Signore
– certo ammogliato, certo protetto da un giro
di rispettabili colleghi nella sua città
di provincia – rappreso in un sospiro
di malato nei visceri o nel cuore –
se ne stava in un banco isolato: come sta
chi si prepara a un premeditato disamore.
E davanti a questi, il campione: colui che ha
venduto l’anima al diavolo, in carne e ossa.
Classico personaggio! Avevo visto la sua faccia
alcuni mesi avanti: ed era un’altra:
la faccia di un giovanotto di grana grossa,
campagnola, stempiato e smunto
dalla dignità professionale.
Ora una vampa lo deformava:
come una vecchia crosta rossa
sopra la pelle. La luce prava
degli occhi era quella di chi è in colpa.
Il suo odio per la mia persona era l’odio
per l’oggetto di quella colpa, ossia
l’odio verso la sua coscienza.
Non era abbastanza disonesto. La fantasia
non basta a immaginare un’esperienza
di ignoranza e ricatto. La borghesia
è il diavolo: vendergli l’anima senza
contropartita? Oh, certo che no: bisogna
adottare la sua cultura, recitare
come un Pater Noster la vergogna
dell’esordio puramente formale,
della clausola mmistificatrice…
Ed essere retorici significa odiare,
essere incolti significa aver perso
deliberatamente ogni rispetto per l’uomo.
Il vecchio amore per l’ideale si riduce
a fingere disperatamente con sè stessi,
a credere in ciò che mentendo si dice.
Ma la luce dell’occhio rimane, ossessi
accusatori! Lì, in quella goccia di luce,
nello sguardo sfuggente, livido,
colpevole – era la vostra verità.
Al rapporto con voi mi conduce,
lo so, una mia interiore volontà:
ma questo è un segreto dell’io,
o Dio, come voi dite. A voi si dirà:
“Voi non contate, siete simboli
di milioni di uomini: d’una società.
Questa mi condanna, non voi, suoi automi.
Ebbene: sono felice della mia mostruosità.
O vogliamo ingannare lo spirito? Uomini
che condannano uomini in nome del nulla:
perchè le Istituzioni sono nulla, quando,
hanno perso ogni forza, la forza fanciulla
delle Rivoluzioni – perchè nulla
è la Morale del buon senso, di una
comunità passiva, senza più realtà
Voi, uomini formali – umili
per viltà, ossequienti per timidezza –
siete persone: in voi e in me, si consumi
il rapporto: in voi, di arido odio,
in me, di conoscenza. Ma per la società
di cui siete inespressivi rapsodi,
ben altro io ho da dire: non da marxista
più, o ancora, ma, per un momento
– se il rapimento degli Autori
dell’Apocalisse affabula in un fuoco
che non ha tempo: i miei amori –
griderò – sono un’arma terribile:
perchè non l’uso? Nulla è più terribile
della diversità. Esposta ogni momento
– gridata senza fine – eccezione
incessante – follia sfrenata
come un incendio – contraddizione
da cui ogni giustizia è sconsacrata.
Ah, Negri, Ebrei, povere schiere
di segnati e diversi, nati da ventri
innocenti, a primavere
infeconde, di vermi, di serpenti,
orrendi a loro insaputa, condannati
a essere atrocemente miti, puerilmente violenti,
odiate! straziate il mondo degli uomini bennati!
Solo un mare di sangue può salvare,
il mondo, dai suoi borghesi sogni destinati
a farne un luogo sempre più irreale!
Solo una rivoluzione che fa strage
di questi morti, può sconsacrarne il male!”
Questo può urlare, un profeta che non ha
la forza di uccidere una mosca – la cui forza
è nella sua degradante diversità.
Solo detto questo, o urlato, la mia sorte
si potrà liberare: e cominciare
il mio discorso sopra la realtà
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