Torna a fiorir la rosa
Che pur dianzi languia;
E molle si riposa
Sopra i gigli di pria.
Brillano le pupille
Di vivaci scintille.
La guancia risorgente
Tondeggia sul bel viso:
E quasi lampo ardente
Va saltellando il riso
Tra i muscoli del labro
Ove riede il cinabro.
I crin, che in rete accolti
Lunga stagione ahi foro,
Su l’omero disciolti
Qual ruscelletto d’oro
Forma attendon novella
D’artificiose anella.
Vigor novo conforta
L’irrequieto piede:
Natura ecco ecco il porta
Sí che al vento non cede
Fra gli utili trastulli
De’ vezzosi fanciulli.
O mio tenero verso,
Di chi parlando vai,
Che studi esser piú terso
E polito che mai?
Parli del giovinetto
Mia cura e mio diletto?
Pur or cessò l’affanno
Del morbo ond’ei fu grave:
Oggi l’undecim’anno
Gli porta il sol, soave
Scaldando con sua teda
I figliuoli di Leda.
Simili or dunque a dolce
Mele di favi iblei,
Che lento i petti molce,
Scendete o versi miei
Sopra l’ali sonore
Del giovinetto al core.
O pianta di bon seme
Al suolo al cielo amica,
Che a coronar la speme
Cresci di mia fatica,
Salve in sí fausto giorno
Di pura luce adorno.
Vorrei di geniali
Doni gran pregio offrirti;
Ma chi diè liberali
Essere ai sacri spirti?
Fuor che la cetra, a loro
Non venne altro tesoro.
Deh perché non somiglio
Al tessalo maestro,
Che di Tetide il figlio
Guidò sul cammin destro?
Ben io ti farei doni
Piú che d’oro e canzoni.
Già con medica mano
Quel centauro ingegnoso
Rendea feroce e sano
Il suo alunno famoso:
Ma non men che a la salma
Porgea vigore all’alma.
A lui, che gli sedea
Sopra la irsuta schiena,
Chiron si rivolgea
Con la fronte serena,
Tentando in su la lira
Suon che virtude inspira.
Scorrea con giovanile
Man pel selvoso mento
Del precettor gentile;
E, con l’orecchio intento,
D’Eàcide la prole
Bevea queste parole:
«Garzon, nato al soccorso
Di Grecia, or ti rimembra
Perché a la lotta e al corso
Io t’educai le membra.
Che non può un’alma ardita
Se in forti membri ha vita?
Ben sul robusto fianco
Stai; ben stendi dell’arco
Il nervo al lato manco,
Onde al segno ch’io marco
Va stridendo lo strale
Da la cocca fatale.
Ma in van, se il resto oblio,
Ti avrò possanza infuso.
Non sai qual contro a dio
Fe’ di sue forze abuso
Con temeraria fronte
Chi monte impose a monte?
Di Teti odi o figliuolo
Il ver che a te si scopre.
Dall’alma origin solo
Han le lodevol opre.
Mal giova illustre sangue
Ad animo che langue.
D’Èaco e di Pelèo
Col seme in te non scese
Il valor che Tesèo
Chiari e Tirintio rese:
Sol da noi si guadagna,
E con noi s’accompagna.
Gran prole era di Giove
Il magnanimo Alcide;
Ma quante egli fa prove,
E quanti mostri ancide,
Onde s’innalzi poi
Al seggio degli eroi?
Altri le altere cune
Lascia, o garzon, che pregi.
Le superbe fortune
Del vile anco son fregi.
Chi de la gloria è vago
Sol di virtú sia pago.
Onora o figlio il nume
Che dall’alto ti guarda;
Ma solo a lui non fume
Incenso e vittim’arda:
È d’uopo, Achille, alzare
Nell’alma il primo altare.
Giustizia entro al tuo seno
Sieda e sul labbro il vero;
E le tue mani siéno
Qual albero straniero
Onde soavi unguenti
Stillin sopra le genti.
Perché sí pronti affetti
Nel core il ciel ti pose?
Questi a Ragion commetti,
E tu vedrai gran cose:
Quindi l’alta rettrice
Somma virtude elice.
Sí bei doni del cielo,
No, non celar, garzone,
Con ipocrito velo,
Che a la virtú si oppone.
Il marchio ond’è il cor scolto
Lascia apparir nel volto.
Da la lor meta han lode
Figlio gli affetti umani.
Tu per la Grecia prode
Insanguina le mani:
Qua volgi qua l’ardire
De le magnanim’ire.
Ma quel piú dolce senso,
Onde ad amar ti pieghi,
Tra lo stuol d’armi denso
Venga, e pietà non nieghi
Al debole che cade
E a te grida pietade.
Te questo ognor costante
Schermo renda al mendico;
Fido ti faccia amante
E indomabile amico.
Cosí, con legge alterna,
L’animo si governa».
Tal cantava il centauro.
Baci il giovan gli offriva
Con ghirlande di lauro.
E Tetide, che udiva,
A la fera divina
Plaudia dalla marina.
Che pur dianzi languia;
E molle si riposa
Sopra i gigli di pria.
Brillano le pupille
Di vivaci scintille.
La guancia risorgente
Tondeggia sul bel viso:
E quasi lampo ardente
Va saltellando il riso
Tra i muscoli del labro
Ove riede il cinabro.
I crin, che in rete accolti
Lunga stagione ahi foro,
Su l’omero disciolti
Qual ruscelletto d’oro
Forma attendon novella
D’artificiose anella.
Vigor novo conforta
L’irrequieto piede:
Natura ecco ecco il porta
Sí che al vento non cede
Fra gli utili trastulli
De’ vezzosi fanciulli.
O mio tenero verso,
Di chi parlando vai,
Che studi esser piú terso
E polito che mai?
Parli del giovinetto
Mia cura e mio diletto?
Pur or cessò l’affanno
Del morbo ond’ei fu grave:
Oggi l’undecim’anno
Gli porta il sol, soave
Scaldando con sua teda
I figliuoli di Leda.
Simili or dunque a dolce
Mele di favi iblei,
Che lento i petti molce,
Scendete o versi miei
Sopra l’ali sonore
Del giovinetto al core.
O pianta di bon seme
Al suolo al cielo amica,
Che a coronar la speme
Cresci di mia fatica,
Salve in sí fausto giorno
Di pura luce adorno.
Vorrei di geniali
Doni gran pregio offrirti;
Ma chi diè liberali
Essere ai sacri spirti?
Fuor che la cetra, a loro
Non venne altro tesoro.
Deh perché non somiglio
Al tessalo maestro,
Che di Tetide il figlio
Guidò sul cammin destro?
Ben io ti farei doni
Piú che d’oro e canzoni.
Già con medica mano
Quel centauro ingegnoso
Rendea feroce e sano
Il suo alunno famoso:
Ma non men che a la salma
Porgea vigore all’alma.
A lui, che gli sedea
Sopra la irsuta schiena,
Chiron si rivolgea
Con la fronte serena,
Tentando in su la lira
Suon che virtude inspira.
Scorrea con giovanile
Man pel selvoso mento
Del precettor gentile;
E, con l’orecchio intento,
D’Eàcide la prole
Bevea queste parole:
«Garzon, nato al soccorso
Di Grecia, or ti rimembra
Perché a la lotta e al corso
Io t’educai le membra.
Che non può un’alma ardita
Se in forti membri ha vita?
Ben sul robusto fianco
Stai; ben stendi dell’arco
Il nervo al lato manco,
Onde al segno ch’io marco
Va stridendo lo strale
Da la cocca fatale.
Ma in van, se il resto oblio,
Ti avrò possanza infuso.
Non sai qual contro a dio
Fe’ di sue forze abuso
Con temeraria fronte
Chi monte impose a monte?
Di Teti odi o figliuolo
Il ver che a te si scopre.
Dall’alma origin solo
Han le lodevol opre.
Mal giova illustre sangue
Ad animo che langue.
D’Èaco e di Pelèo
Col seme in te non scese
Il valor che Tesèo
Chiari e Tirintio rese:
Sol da noi si guadagna,
E con noi s’accompagna.
Gran prole era di Giove
Il magnanimo Alcide;
Ma quante egli fa prove,
E quanti mostri ancide,
Onde s’innalzi poi
Al seggio degli eroi?
Altri le altere cune
Lascia, o garzon, che pregi.
Le superbe fortune
Del vile anco son fregi.
Chi de la gloria è vago
Sol di virtú sia pago.
Onora o figlio il nume
Che dall’alto ti guarda;
Ma solo a lui non fume
Incenso e vittim’arda:
È d’uopo, Achille, alzare
Nell’alma il primo altare.
Giustizia entro al tuo seno
Sieda e sul labbro il vero;
E le tue mani siéno
Qual albero straniero
Onde soavi unguenti
Stillin sopra le genti.
Perché sí pronti affetti
Nel core il ciel ti pose?
Questi a Ragion commetti,
E tu vedrai gran cose:
Quindi l’alta rettrice
Somma virtude elice.
Sí bei doni del cielo,
No, non celar, garzone,
Con ipocrito velo,
Che a la virtú si oppone.
Il marchio ond’è il cor scolto
Lascia apparir nel volto.
Da la lor meta han lode
Figlio gli affetti umani.
Tu per la Grecia prode
Insanguina le mani:
Qua volgi qua l’ardire
De le magnanim’ire.
Ma quel piú dolce senso,
Onde ad amar ti pieghi,
Tra lo stuol d’armi denso
Venga, e pietà non nieghi
Al debole che cade
E a te grida pietade.
Te questo ognor costante
Schermo renda al mendico;
Fido ti faccia amante
E indomabile amico.
Cosí, con legge alterna,
L’animo si governa».
Tal cantava il centauro.
Baci il giovan gli offriva
Con ghirlande di lauro.
E Tetide, che udiva,
A la fera divina
Plaudia dalla marina.
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