Dalle profondità dei cieli tetri
scende la bella neve sonnolenta,
tutte le cose ammanta come spetri;
scende, risale, impetuosa, lenta,
di su, di giù, di qua, di là, s’avventa
alle finestre, tamburella i vetri…
Turbina densa in fiocchi di bambagia,
imbianca i tetti ed i selciati lordi,
piomba dai rami curvi, in blocchi sordi…
Nel caminetto crepita la bragia
e l’anima del reduce s’adagia
nella bianca tristezza dei ricordi.
Reduce dall’Amore e dalla Morte
gli hanno mentito le due cose belle!
Gli hanno mentito le due cose belle:
Amore non lo volle in sua coorte,
Morte l’illuse fino alle sue porte,
ma ne respinse l’anima ribelle.
In braccio ha la compagna: Makakita;
e Makakita trema freddolosa,
stringe il poeta e guarda quella cosa
di là dai vetri, guarda sbigottita
quella cosa monotona infinita
che tutto avvolge di bianchezza ondosa.
Forse essa pensa i boschi dove nacque,
i tamarindi, i cocchi ed i banani,
il fiume e le sorelle quadrumani,
e il gioco favorito che le piacque,
quando in catena pendula sull’acque
stuzzicava le nari dei caimani.
Con la Mamma vicina e il cuore in pace,
s’aggira, canticchiando un melodramma;
sospira un po’… Ravviva dalla brace
il guizzo allegro della buona fiamma…
Canticchia. E tace con la cara Mamma;
la cara Mamma sa quel che si tace.
Egli s’aggira. Toglie di sul piano
forte un ritratto: «Quest’effigie!… Mia?…»
E fissa a lungo la fotografia
di quel se stesso già così lontano:
«Sì, mi ricordo… Frivolo… mondano…
vent’anni appena… Che malinconia!…
Mah! Come l’io trascorso è buffo e pazzo!
Mah!…» – «Che sospiri amari! Che rammenti?»
«Penso, mammina, che avrò tosto venti-
cinqu’anni! Invecchio! E ancora mi sollazzo
coi versi! È tempo d’essere il ragazzo
più serio, che vagheggiano i parenti.
Dilegua il sogno d’arte che m’accese;
risano a poco a poco anche di questo!
Lungi dai letterati che detesto,
tra saggie cure e temperate spese,
sia la mia vita piccola e borghese:
c’è in me la stoffa del borghese onesto…»
Sogghigna un po’. Ricolloca sul piano-
forte il ritratto «Quest’effigie! Mia?…»
E fissa a lungo la fotografia
di quel se stesso già così lontano.
«Un po’ malato… frivolo… mondano…
Sì, mi ricordo… Che malinconia!…»
scende la bella neve sonnolenta,
tutte le cose ammanta come spetri;
scende, risale, impetuosa, lenta,
di su, di giù, di qua, di là, s’avventa
alle finestre, tamburella i vetri…
Turbina densa in fiocchi di bambagia,
imbianca i tetti ed i selciati lordi,
piomba dai rami curvi, in blocchi sordi…
Nel caminetto crepita la bragia
e l’anima del reduce s’adagia
nella bianca tristezza dei ricordi.
Reduce dall’Amore e dalla Morte
gli hanno mentito le due cose belle!
Gli hanno mentito le due cose belle:
Amore non lo volle in sua coorte,
Morte l’illuse fino alle sue porte,
ma ne respinse l’anima ribelle.
In braccio ha la compagna: Makakita;
e Makakita trema freddolosa,
stringe il poeta e guarda quella cosa
di là dai vetri, guarda sbigottita
quella cosa monotona infinita
che tutto avvolge di bianchezza ondosa.
Forse essa pensa i boschi dove nacque,
i tamarindi, i cocchi ed i banani,
il fiume e le sorelle quadrumani,
e il gioco favorito che le piacque,
quando in catena pendula sull’acque
stuzzicava le nari dei caimani.
Con la Mamma vicina e il cuore in pace,
s’aggira, canticchiando un melodramma;
sospira un po’… Ravviva dalla brace
il guizzo allegro della buona fiamma…
Canticchia. E tace con la cara Mamma;
la cara Mamma sa quel che si tace.
Egli s’aggira. Toglie di sul piano
forte un ritratto: «Quest’effigie!… Mia?…»
E fissa a lungo la fotografia
di quel se stesso già così lontano:
«Sì, mi ricordo… Frivolo… mondano…
vent’anni appena… Che malinconia!…
Mah! Come l’io trascorso è buffo e pazzo!
Mah!…» – «Che sospiri amari! Che rammenti?»
«Penso, mammina, che avrò tosto venti-
cinqu’anni! Invecchio! E ancora mi sollazzo
coi versi! È tempo d’essere il ragazzo
più serio, che vagheggiano i parenti.
Dilegua il sogno d’arte che m’accese;
risano a poco a poco anche di questo!
Lungi dai letterati che detesto,
tra saggie cure e temperate spese,
sia la mia vita piccola e borghese:
c’è in me la stoffa del borghese onesto…»
Sogghigna un po’. Ricolloca sul piano-
forte il ritratto «Quest’effigie! Mia?…»
E fissa a lungo la fotografia
di quel se stesso già così lontano.
«Un po’ malato… frivolo… mondano…
Sì, mi ricordo… Che malinconia!…»
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